Un giorno andrebbe scritta una storia della moda contemporanea attraverso gli occhi dei team che, in perfetto anonimato, hanno tenuto in vita lo stile di maison storiche nei momenti di passaggio creativo. I risultati sarebbero di certo interessanti, ed evidenzierebbero, con molta probabilità, un misto di ortodossia nei confronti dell’archivio e di tentativi gentili di irriverenza nell’aggiornare, evitando però le fregole autoriali.

La collezione haute couture di Chanel sfila nel foyer dell’Opera. È la prima da quando Virginie Viard si è separata dalla maison, ma l’evento è ancora troppo recente per non vedere tocchi del suo Chanel in questo Chanel. Viard ha fatto un lavoro egregio, ma era forse poco adatta alla leadership. Le sue collezioni mancavano di coagulare intorno ad un chiaro messaggio di moda, evidenziando piuttosto il potere sommo del marchio. Questa prova è anch’essa Chanel al 100%, senza guizzi di sorta, ma segue un filone chiaro, e il tutto ne giova. Il pensiero è: se siamo all’Opera, meglio accelerare sulla teatralità, senza però fare costumi. C’è qualcosa di settecentesco nelle trine e nei falpalà, nei bustier e nei mantelli; e c’è pure molto Karl Lagerfeld, nella geometria espressionista di certi tagli, nel dramma teutonico. A volte la mano è pesante, ma l’osservanza verso i codici – tweed, tailleur, chic borghese – assicura continuità.

È leggera, pur nell’opulenza dei ricami che fremono quasi per intero dall’inizio alla fine, e delle perle che splendono per ogni dove, argentee e opalescenti, la prova di Armani Privé. «Ho voluto creare abiti che evocassero un’idea di eleganza pacata, discreta e lussuosa allo stesso tempo – dice Armani, cui va sempre riconosciuto il potere sommo della concentrazione e lo sdegno delle sbavature, oltre allo spirito di sintesi riassunto in silhouette pure e flessuose -. Le perle, con la loro lucentezza che incanta e mai abbaglia, mi hanno ispirato nell’immaginare una donna intensa, seducente, dal fascino lunare e appena malinconico».

Giorgio Armani al termine della sfilata (Photo by ALAIN JOCARD / AFP)

Una sfilata di Armani la si apprezza sempre per la continuità invece che per la rottura, per la riaffermazione del codice invece che per il suo stravolgimento, eppure lo scarto da una collezione all’altra è comunque tangibile. Questa volta l’armanismo è particolarmente grafico e seducente, ma non sono i tailleur impeccabili e splendenti a catturare l’occhio; piuttosto, gli abiti scollati e scintillanti, da red carpet, immaginati come calligrafie di luce e di linea.

A confronto di siffatto esercizio di sottrazione, il dramma da soffitta borghese del giovanissimo Charles de Vilmorin è anarchico e spumeggiante, un po’ casalingo nell’esecuzione ma con una energia che, se opportunamente incanalata, potrebbe dare frutti. Al momento è solo teatro, ma c’è tempo.

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