Sui conti pubblici, e più concretamente sulle politiche che si possono attuare con i fondi statali, l’inflazione sprigiona l’effetto classico delle droghe. Positivo nella fase iniziale, perché taglia il valore reale del debito pubblico e soprattutto riduce il suo peso su un Pil nominale gonfiato dalle dinamiche dei prezzi, lascia presto il passo agli strascichi successivi, pesanti e duraturi: tagliando le gambe alla finanza pubblica che, gravata dalle ricadute su interessi passivi in crescita, deve fare i conti con la dieta rigida del valore effettivo degli stanziamenti per le diverse voci di spesa.

Le tabelle del Documento di economia e finanza 2024 ora all’esame delle Camere offre a chi ne voglia approfittare l’occasione di un consuntivo dello shock inflattivo che ha fatto correre i prezzi nel 2022-2023 e ora si è esaurito, aprendo la lunga stagione del down. Problema che in Italia è doppio, perché a pesare è anche l’eredità di un Superbonus che dopo aver dato una spinta (controversa nell’entità) sulla crescita negli anni scorsi ora si fa sentire con le sue scorie fatte di debito pubblico aggiuntivo. È un ostacolo in più, non piccolo: perché il Governo avrebbe bisogno di spazi fiscali aggiuntivi per adeguare all’inflazione le doti finanziarie di settori cruciali come la sanità e gli altri servizi pubblici. Ma i margini sono esauriti a priori, al punto che, in attesa della definizione del piano fiscale strutturale previsto dalla nuova governance economica della Ue, si è rinunciato ad abbozzare qualsiasi ipotesi programmatica.

IL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2024

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I numeri del Def spiegano in modo efficace il perché. Per capirlo basta guardare al conto economico delle amministrazioni pubbliche (pagina 13 della sezione II del Documento, quella su «analisi e tendenze della finanza pubblica») e confrontare le voci di entrata e di spesa del 2024 con quelle del 2021, precedenti all’impennata dei prezzi, depurando il tutto dall’inflazione.

I teorici della spending review, convinti delle potenzialità che si potrebbero sfruttare riducendo la spesa pubblica, scopriranno che in termini reali la spesa corrente primaria, al netto degli interessi, è cresciuta di 93,7 miliardi in termini nominali (+11,5%) ma si è ridotta del 3,7% in termini reali. Per tenere il passo di tre anni fa, in pratica, servirebbero 33,3 miliardi in più. L’immagine si fa più concreta quando si scende nei dettagli dei singoli capitoli macro: la spesa sanitaria reale del 2024 viaggia il 6,2% sotto a quella del 2021, che raggiungerebbe solo con un aiuto extra da 8,6 miliardi, e quella per i redditi dei dipendenti pubblici perde in tre anni un 4% tondo, cioè 7,9 miliardi nominali.

La flessione avviene nonostante gli sforzi straordinari compiuti con l’ultima manovra, che ha dedicato un terzo del proprio impegno (8 miliardi su 24) ai fondi per il rinnovo contrattuale del pubblico impiego con una spesa che per competenza si fa sentire proprio da quest’anno: ma il recupero integrale dell’inflazione relativa al 2022/24, triennio di riferimento dei nuovi contratti, avrebbe avuto bisogno di circa 32 miliardi, divisi quasi a metà fra la Pa centrale finanziata con la manovra e i comparti (enti territoriali, università e così via) che coprono gli aumenti con i fondi del proprio bilancio. Perché il problema di un’inflazione come quella vissuta nell’ultimo biennio è proprio nelle sue dimensioni sostanzialmente ingestibili per qualsiasi bilancio pubblico; soprattutto quando è schiacciato da deficit e debito a livelli italiani. In flessione reale, sempre per stare nelle zone care alle spending review, anche le spese di funzionamento della pubblica amministrazione, riassunte nei “consumi intermedi” tagliati del 3,4% in tre anni in termini reali

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