È illegittima l’inclusione delle accise nella base di calcolo dell’imposta straordinaria sugli extraprofitti delle società energetiche introdotta dal Governo Draghi nel 2022. Lo ha deciso la Corte costituzionale nella sentenza 111/2024 depositata ieri, mercoledì 26 giugno (redattore Luca Antonini), fissando un principio in virtù del quale le emergenze finanziarie dello Stato non possono giustificare tutto, perché “il necessario bilanciamento di interessi fra le esigenze finanziarie della collettività e tutela delle ragioni del contribuente non può sistematicamente risolversi a favore delle prime”.

All’esame dei giudici delle leggi è finito l’articolo 37 del decreto legge 21 del 2022, che ha introdotto una tassa straordinaria sui cosiddetti “extraprofitti” delle società dell’energia generati dalla fiammata dei costi delle materie prime dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Il problema nasce dal fatto che i profitti delle aziende sono normalmente misurati dalla base imponibile dell’Ires, l’imposta sulle società che si calcola però sui bilanci e arriva quindi solo l’anno successivo rispetto a quello in cui gli utili sono stati realizzati. Ma il Governo aveva fretta di incassare il gettito della tassa straordinaria per finanziare i provvedimenti anti-inflazione e generare un circolo “virtuoso” in cui i contribuenti favoriti dalla corsa dei prezzi, cioè le società dell’energia, aiutassero la generalità degli italiani invece penalizzati dall’inflazione. Per raggiungere lo scopo, la base imponibile è stata calcolata sul saldo Iva, cioè sulla differenza tra fatture attive e passive che si evidenzia in tempo quasi reale.

Proprio l’eccezionalità del momento porta la Corte a promuovere questo meccanismo, ma non nella sua interezza. Perché l’inclusione nel conto delle accise, che entrano nei saldi attivi ma sono poi ovviamente riversate allo Stato, “supera i limiti della ragionevolezza”. Questa quota versata dalle imprese va quindi restituita, con un costo per lo Stato che le prime stime calcolano in circa 150 milioni.

Ma il cuore della sentenza è nel principio in base al quale l’emergenza finanziaria non può giustificare ogni pretesa dello Stato, perché l’equilibrio fra le esigenze del bilancio pubblico e quello del contribuente deve essere effettivo. In quest’ottica la pronuncia è cruciale anche agli occhi degli investitori, italiani e soprattutto stranieri, che possono basare le proprie scelte operative sulla consapevolezza che anche da noi “c’è un giudice a Berlino” in grado di tutelarli da richieste irragionevoli in termini di tasse. Anche se in questo caso il giudice è a Roma.

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