Un giornalista può fingere di essere un militante di un partito, per conoscerne dall’interno le idee, le pulsioni e i sentimenti profondi? E ciò costituisce una preoccupante novità e un rischio per le democrazie, come sostenuto dal presidente del Consiglio sino a evocare pratiche di regimi autoritari e invocare un intervento del capo dello Stato?

Il tema è serio: ogni associazione può ragionevolmente aspirare a che ciò che si dice nelle proprie riunioni resti all’interno dei partecipanti e non sia divulgato all’esterno. Tuttavia, proprio i regimi democratici sanciscono che la politica si deve svolgere alla luce del sole e dunque che l’opinione pubblica abbia il diritto di conoscere l’organizzazione, le finalità e le idee di un partito.

Ciò che lo stato democratico garantisce è che il dibattito interno non debba essere condizionato da interferenze di chi esercita un potere pubblico. E, in effetti, le dittature di ogni sorta hanno sempre utilizzato spie che si fingevano oppositori, per infiltrare i gruppi dissidenti, schedare gli aderenti e reprimerli.

Durante il fascismo, sempre lì occorre ritornare, fu addirittura creata una polizia politica, l’Ovra, con il compito di scoprire le “associazioni sovversive”, infiltrarsi e smantellarle. E non è improbabile che qualcosa del genere sia avvenuto illegalmente anche in periodo repubblicano, specie nell’epoca della guerra fredda e del terrorismo.

Il caso di FanPage è tuttavia del tutto diverso: nelle dittature è il potere autoritario che utilizza i propri apparati segreti per reprimere il dissenso; oggi è il giornalismo di inchiesta che disvela i segreti del potere e l’esistenza di numerosi esponenti di un partito di governo ancora attratti dalle peggiori ideologie del Novecento.

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