In America pochi giorni fa anche l’ultimo tabù sui voli aerei è stato infranto, sotto il peso di un’attenzione maniacale alle nicchie di pubblici e ai loro bisogni da ascoltare, da soddisfare, addirittura da anticipare. «Finalmente i cani possono volare. Siamo qui per rivoluzionare la loro esperienza di volo e quella dei loro amici umani con una compagnia aerea al 100% dog-friendly»: così recita la campagna pubblicitaria lanciata pochi giorni fa e attualmente in programmazione, realizzata dal colosso statunitense di prodotti per animali domestici, e in particolare per i cani, Bark. I voli partiranno dai primi di maggio su tre tratte, di cui una anche intercontinentale. Le destinazioni sono quelle di New York City, Los Angeles e Londra. A bordo un’esperienza extra-lusso: ristorazione da prima classe (che comprende anche uno champagne analcolico per cani), letti reclinabili personalizzati, sedili che favoriscono i massaggi sulla pancia degli amati quattrozampe, asciugamani rinfrescanti al profumo di lavanda, servizi di toilettatura svolti da personale qualificato e presto arriverà anche la creazione del primo parco giochi per cani al mondo mai realizzato in volo. Almeno così promettono dall’azienda. Il servizio è su misura per un pubblico alto-spendente. Bark non si aspetta numeri da capogiro, ma di rafforzare il proprio posizionamento su quella community che già sceglie i loro prodotti. «Realizzare viaggi dog-friendly è sempre stato un sogno della nostra azienda sin dalla nascita nel 2011. Oggi ci siamo resi conto che riusciamo a soddisfare le necessità di una parte della nostra clientela creando voli inclusivi. D’altronde finora siamo sempre stati costretti a mettere i nostri amati membri della famiglia in una borsa infilata sotto il sedile o, peggio ancora, in una cassa isolata nella stiva del cargo. Così abbiamo pensato di reinventare l’esperienza del viaggio», ha dichiarato alla stampa americana Dave Stangle, vicepresidente del marketing di Bark.

Il declino della viralità

Oltre i numeri da capogiro e servizi generalisti mass market c’è un mondo di opportunità per i brand e per gli utenti che desiderano usufruire delle varie occasioni. In fondo mai come oggi emerge quella “coda lunga”, così definita da Chris Anderson esattamente vent’anni fa sulle pagine della rivista americana Wired. Nella sua accezione iniziale la “coda lunga” si legava all’ipersegmentazione dei consumi e oggi può essere estesa anche alla fruizione dei mezzi digitali e social. Perché se il mercato si parcellizza in mille differenti proposte, anche i numeri social sono destinati a incidere con portate numeriche differenti rispetto al passato. Al bando le metriche quantitative, spazio a quelle qualitative. Così c’era una volta la viralità che invadeva gli spazi interstiziali della rete generando traffico, interesse, monetizzazione. Ma in un mondo così disperso in mille differenti rivoli di piattaforme e contenuti e con la nicchia che si impone, cosa significa essere virali?

Se lo è chiesto pochi giorni fa il Washington Post, alimentando il dibattito sulle nuove forme di digital marketing. «Dieci anni fa Internet si è fratturato in innumerevoli algoritmi, piattaforme e comunità di nicchia. I contenuti sfornati ogni giorno sono saliti alle stelle, il ciclo di vita di ogni media si è accorciato e le piattaforme di social media continuano a svalutare statistiche online precedentemente impressionanti», scrive Taylor Lorenz. Nasce così il concetto di viralflazione.

La viralflazione

Il termine definisce quel valore riperimetrato della viralità. Quindi al bando la viralità, diventata vera e propria chimera anche delle narrazioni social. Ma non è detto che tutto questo sia una cattiva notizia. «Nel 2024 è diventato comune inquadrare prodotti, ricette, capi di abbigliamento e altro ancora come se fossero diventati virali. Ma nessuno degli articoli che si vendono sul web tacciati per virali ha guadagnato eccessiva popolarità online e i video che li riguardano hanno accumulato solo visualizzazioni modeste. In fondo anche la viralità è sempre più di nicchia poiché la rete si è estesa in comunità disparate. Un contenuto può diventare virale in regioni specifiche o solo all’interno di una determinata tribù demografica o accomunata da specifici interessi», precisa Lorenz. Paradossalmente in questo modo le organizzazioni vanno a verticalizzare ulteriormente la propria offerta, sforzandosi di gestire necessità sempre più mirate. Lo sostiene da tempo anche il guru del marketing contemporaneo Seth Godin: «La maggior parte delle organizzazioni dedica il proprio tempo a vendere a una folla indistinta, mentre le aziende più accorte riuniscono tribù». C’è da chiedersi se anche sui social si arriverà alla conclusione che “meno è meglio” e se quel meno diventa un valore aggiunto. Lo scriveva già 15 anni fa con un post su Technium.com diventato in quel caso virale Kevin Kelly, definendo il concetto dei “mille veri fan” come chiave del successo della community. Per Kelly solo mille autentici fan costituiscono una tribù di valore.

Video anti-crisi

Ma attenzione: in questa partita di inflazione anomala rispetto all’accezione classica di taglio economico una storia a parte meritano le componenti multimediali e i video in testa. Catturano l’attenzione, mettendo in campo una strategia che supera l’inflazione social. Ma anche in questo caso si fa fatica. Bisogna andare oltre la viralità. I brand devono adattarsi alle mutevoli aspettative legate ai video. Così ha titolato pochi giorni fa Forbes America parlando della portata decrescente della viralità organica. «Nel regno dei contenuti digitali, un video virale un tempo veniva paragonato alla scoperta dell’oro e aveva il potenziale per raggiungere milioni di persone con una spesa di marketing minima: un sogno allettante sia per i creator sia per i marketer. Tuttavia nell’ambiente fortemente competitivo di oggi le prospettive di raggiungere la viralità organica sono notevolmente diminuite. Le piattaforme social hanno messo a punto i propri algoritmi, spesso favorendo i contenuti di account consolidati o con una comprovata storia di elevato coinvolgimento», scrive Renece Brewster. Insomma, la partita si fa assai più complicata, ma forse è il segno di come l’effetto wow legato alla mera forma lascia necessariamente presto il posto alla sostanza.

Condividere.
Exit mobile version