Per alcuni sarà anche una buona notizia. Per altri – quelli che ogni anno inneggiano al primato produttivo italiano – di certo no. La realtà che la vendemmia 2023 è stata la più scarsa da 76 anni a questa parte, con una produzione che, come certificato da Assoenologi, Ismea e Uiv si è fermata a quota 38,3 milioni di ettolitri con un calo del 23,2% rispetto al 2022. Per trovare un valore inferiore occorre risalire al Dopoguerra, al 1947.

La vendemmia ai minimi storici è stata condizionata oltre che dalle complesse condizioni climatiche, dagli attacchi del fungo della peronospora che in alcune regioni in particolare, come l’Abruzzo, ha portato a un taglio della produzione fino al meno 70%.Il dato è stato comunicato anche dal ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare alla Dg Agri a Bruxelles e appare sostanzialmente in linea con quanto previsto alla fine dello scorso novembre dall’Osservatorio Assoenologi, Ismea e Unione italiana vini.

«La contrazione, senza precedenti dal 1947 – hanno spiegato all’Osservatorio Assoenologi, Ismea e Uiv – è stata determinata in particolare dagli attacchi della peronospora, malattia fungina provocata dalle frequenti piogge che ha colpito molti vigneti soprattutto del Centro-Sud. Nel resto del paese invece l’estate settembrina, se da una parte ha ulteriormente alleggerito il prodotto, dall’altra ha influito positivamente sulla qualità delle uve». Di fatto, a ben guardare la congiuntura, verrebbe di dar ragione a chi tira un sospiro di sollievo di fronte a queste cifre. La forte contrazione produttiva giunge infatti in un momento di mercato complesso per il vino italiano. L’export nel 2023 ha fatto segnare la terza battuta d’arresto in più di vent’anni con un calo in volume del 4% e in valore dello 0,8% (nonostante l’inflazione generalizzata). E in particolare in questo trend hanno registrato più di una difficoltà i vini fermi rossi a denominazione. E lo scenario anche per il 2024 al momento non lascia immaginare un’inversione di tendenza.

A tutto questo va aggiunto un quadro delle giacenze ancora pesante. A fine febbraio si contano stock di vino per 56,1 milioni di ettolitri. In calo di circa il 4% rispetto a un anno fa ma ancora l’equivalente di una vendemmia abbondante, non certo come la produzione 2023. «Con una produzione ai minimi storici – ha commentato il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti – il 2024 si annuncia molto complesso e sfidante, le nostre imprese avranno l’esigenza vitale di alzare il valore unitario dei propri prodotti, in un contesto macroeconomico che non è dei più favorevoli. Si è visto già l’anno passato, con le difficoltà patite nei circuiti retail dei principali Paesi, dove ad aumenti di prezzo anche limitati sono corrisposti in maniera quasi automatica cali degli acquisti a volume»

E poi c’è un tema che esula dal dato congiunturale: “È paradossale – ha aggiunto Castelletti – parlare del raccolto più povero dal Dopoguerra in un periodo storico in cui il vero problema sta nella eccedenza di vino determinata da passate vendemmie a oltre 50 milioni di ettolitri. Ma non può essere una malattia fungina a riequilibrare una situazione che solo 8 mesi fa faceva segnare il record di giacenze degli ultimi anni. Oggi più che mai si impongono scelte politiche di medio e lungo periodo a favore della qualità e di una riforma strutturale del settore. Servirebbe ragionare assieme alle istituzioni in merito a piani strategici per ponderare scelte delicate. Invece in un anno è mezzo si è passati dalla negazione del problema – quello del surplus produttivo rilevato da Unione italiana vini già in tempi non sospetti – al tema degli espianti finanziati attingendo a fondi destinati invece alla ristrutturazione dei vigneti che negli anni sono divenuti un simbolo del made in Italy. Per questo motivo – ha concluso il segretario Uiv – riteniamo necessario accelerare l’istituzione di un gruppo di lavoro presso il Masaf per lavorare sulla prospettiva dell’assetto del vino italiano al 2030”.

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