Si inizia ad incardinare in Parlamento la discussione su riduzione dell’orario di lavoro e settimana corta: giovedì in sede referente in Commissione Lavoro della Camera, è previsto infatti l’avvio dell’esame delle proposte di legge delle opposizioni. La prima (primo firmatario Nicola Fratoianni – Alleanza Verdi e Sinistra) punta a una «riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario» che «favorirebbe un aumento dell’occupazione in alcuni comparti produttivi», in quanto «c’è un rapporto chiaro fra orari ridotti e tassi di occupazione più elevati». La proposta di legge prevede una «riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 34 ore effettive a parità di retribuzione», con «l’istituzione di un Fondo di incentivazione alla riduzione dell’orario di lavoro destinato ai datori che adottino una diminuzione di almeno il 10 per cento dell’orario settimanale».

La proposta M5s, ipotesi settimana corta di 32 ore

Un’altra proposta di legge (primo firmatario Giuseppe Conte) promuove «un’organizzazione dell’orario di lavoro che, assicurando parità di retribuzione, garantisca una riduzione del totale delle ore lavorate senza comprometterne la produttività». E a tal fine «riconosce alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale» la facoltà di «stipulare specifici contratti per la riduzione dell’orario di lavoro, fino alla misura minima di 32 ore settimanali, a parità di retribuzione». Si precisa che «la riduzione dell’orario normale di lavoro può riguardare sia l’orario giornaliero sia il numero delle giornate lavorative settimanali, fino a 4 giornate». E per incentivare il ricorso alla riduzione dell’orario normale di lavoro a parità di retribuzione e sostenere le imprese che decidano di ricorrervi, «in via sperimentale per il primo triennio di applicazione della nuova normativa, si prevede che ai datori di lavoro sia concesso l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assicurativi a loro carico, nel limite massimo di 8.000 euro su base annua, ferma restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche».

Anche il Pd si muove nella stessa direzione

Una terza proposta (primo firmatario Arturo Scotto – Pd), cofirmata dalla segretaria dem Elly Schlein, si muove in direzione simile e punta alla «definizione di nuovi modelli organizzativi e produttivi nel nostro Paese, imperniati sulla riduzione dell’orario di lavoro, anche nella formula dei quattro giorni lavorativi settimanali. Un provvedimento di sostegno della contrattazione collettiva che, nel rispetto del ruolo delle parti sociali, incentivi la sperimentazione di quelle soluzioni che contestualmente consentano incrementi della produttività e riduzione dell’orario di lavoro, a parità di retribuzione». Per tali obiettivi, la proposta di legge prevede «l’incentivo del parziale esonero dal versamento dei contributi, nella misura del 30 per cento dei complessivi contributi previdenziali dovuti, con esclusione dei premi e dei contributi spettanti all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente cui si applicano i contratti collettivi tra le imprese e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale». L’esonero è riconosciuto «per la durata del periodo di sperimentazione prevista dai suddetti contratti collettivi e in proporzione alla riduzione di orario di lavoro concordata». L’esonero viene riconosciuto «nella misura del 40 per cento, qualora le prestazioni lavorative interessate dalla sperimentazione dell’orario di lavoro siano comprese tra quelle considerate usuranti o gravose».

Finisce lo smart working semplificato

Dal 1° aprile intanto è diventato meno facile lavorare da casa: si torna infatti alle vecchie norme. Ma le possibilità offerte dal lavoro smart (conciliazione dei tempi della famiglia, minor inquinamento e congestione delle città, ad esempio) hanno lasciato il segno e ora si ipotizza un’evoluzione di questo strumento. Non solo: A partire dal 1° aprile finisce lo smart working garantito dalle procedure semplificate attivate durante il Covid (ad esempio per alcune patologie) ma sarà sempre possibile affidarsi agli accordi individuali tra azienda e lavoratori. Una nuova fase per un fenomeno in crescita: dopo i picchi della pandemia e una graduale riduzione negli ultimi due anni, nel 2023 i lavoratori da remoto nel nostro paese si assestano a 3,585 milioni, in leggera crescita rispetto ai 3,570 milioni del 2022, ma ben il 541% in più rispetto al pre-Covid. Nel 2024 si stima saranno 3,65 milioni gli smart worker in Italia, rilevava l’ Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.

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