La strategia più moderna è tornare all’antico. O quasi. È una delle risposte ai tanti quesiti che il mondo del vino, soprattutto in Sicilia, si pone oggi: ci sono i cambiamenti climatici, ci sono i cambiamenti di gusto dei consumatori e ci sono le esigenze di reddito dei produttori, soprattutto piccoli, che stentano in molti casi ad andare avanti. Sono tutte questioni che riguardano il vino del futuro e su cui il sistema sta cominciando a ragionare. «La Sicilia vitivinicola è chiamata ad affrontare nuove sfide legate a diversi fattori – dice Mariangela Cambria, presidente Assovini –: dal cambiamento climatico, all’evoluzione dei gusti dei consumatori, alla flessione dell’export e del mercato interno». Se ne parlerà di certo al Vinitaly che si apre a Verona domenica 14 aprile.

I numeri degli ultimi anni ci dicono che in Sicilia la produzione è in forte calo e certo un ruolo lo ha avuto il clima. Tra il 2021 e il 2023 è crollata: era 4,577 milioni di ettolitri nel 2021, è stata 2,460 milioni di ettolitri nel 2023. Il calo è stato del 46,2 per cento e solo metà del vino prodotto finisce in bottiglia, il resto è venduto sfuso. Certo qualcosa vorrà pur dire in un settore che per la parte Doc e Igp vale in Sicilia (nel 2022) 451 milioni con una crescita dello 0,1% rispetto all’anno precedente e dà lavoro a quasi 11mila persone. Il Piemonte che ha prodotto nel 2022 2,731 milioni di ettolitri può contare su 1,362 miliardi per Dop e Igp: poco più di tre volte il valore della Sicilia. È evidente, e non da ora, che qualcosa ancora non torna: «Il nostro vino – dicono i piccoli produttori – continua ad avere in gran parte un valore troppo basso: venduto sfuso e usato per tagliare altri vini oppure fa la fortuna degli imbottigliatori». È un vino a basso valore aggiunto di innovazione in una fase in cui stanno cambiando i gusti dei consumatori. Ed è da qui che bisogna partire. «Serve una varietà che accumula poco zucchero, che dà vini poco alcolici, non corposi e molto fruttati – dice Mattia Filippi, fondatore insieme a Umberto Marchiori e Roberto Merlo di  Uva Sapiens, società di alta consulenza tecnica e specialistica nel settore vinicolo –. Oppure una varietà che matura molto presto o molto tardi, saltando la fase critica di luglio e agosto. Elementi che 20 anni fa erano limiti forti e oggi potrebbero essere dei vantaggi. Servono nuovi vitigni e nuove aree di produzione come i Nebrodi». Diciamo che in Sicilia il cantiere è aperto: «Stiamo studiando il comportamento di alcune varietà per capire meglio quella che potrà darci nel futuro un grande vino» dice Antonio Rallo, presidente Consorzio Doc Sicilia. Rallo si riferisce al progetto BiViSi. Sono state fatte 14 prove di vinificazione di alcuni cloni di varietà impiantate in quattro diversi contesti viticoli in un progetto di ricerca che ha tra i suoi principali obiettivi, trasmettere al sistema produttivo i risultati ottenuti: «Siamo alla prova del nove, con un carico di innovazione per la filiera vitivinicola; un’innovazione che parte da lontano e che recupera informazioni anche dal passato perché si tratta di approfondire i vitigni regionali più diffusi e i cosiddetti vitigni reliquia che oggi potrebbero rivelarsi risorse significative per diversificare la produzione» spiega Maurizio Gily, innovation broker di BiViSi. Un lavoro cui guarda con attenzione l’Irvos (l’Istituto regionale del vino e dell’olio): «Stiamo lavorando su diversi fronti – spiega il direttore Gaetano Aprile–. Abbiamo un progetto sui vitigni resistenti alla peronospera e stiamo lavorando sugli spumanti. Abbiamo anche un lavoro in corso sul catarratto». Già il catarratto, un vitigno che è stato bistrattato e oggi viene visto con grande fiducia: «Il tempo è la misura della qualità del vino – dice Tonino Guzzo, enologo con un lungo carnet di premiazioni – bisogna sempre tenerlo presente. Nel mondo i consumi vanno verso i vini bianchi e i rosé e noi in Sicilia abbiamo qualità che possono dare risposte.  Una è il catarratto che ha già dimostrato le sue potenzialità. Tra i vini rossi ha grandi potenzialità il Cerasuolo di Vittoria».

 Ma ci sono questioni anche di sistema, organizzative, strutturali su cui è necessario intervenire: «In queste condizioni prevedo nei prossimi cinque anni un calo della produzione del 30 %» dice Dino Taschetta, presidente di Colomba Bianca, una delle maggiori cantine produttrici di vino biologico in Europa, con 2.480 soci viticoltori che operano su 6mila ettari. C’è il problema della siccità ma anche quello strutturale della resa dei vigneti: «Per me – dice Taschetta – il vino sostenibile è quello che riesce a garantire un reddito adeguato ai produttori. Dobbiamo innescare un circolo virtuoso prevedendo premialità nell’erogazione dei contributi pubblici per le imprese che puntano a modernizzarsi ma anche stare accanto ai produttori: l’assistenza tecnica, per esempio, è stata smantellata. Il successo dipende anche da una visione di lungo termine del territorio. Non c’è un progetto ed è quello che serve». E in fretta sembra di capire. «Bisogna ripensare al modello agricolo non più come un compartimento stagno – dice Filippi – . Il vero futuro della Sicilia dovrebbe essere una legge quadro di visione con all’interno l’agricoltura, il turismo, l’industria green e possibilmente anche il settore energetico. Non si può più pensare che il settore starà in piedi da solo».

La parola chiave resta territorio. Ma anche su questo c’è da fare un regionamento che riguarda la comunicazione: «Il vino siciliano deve avere più coraggio e puntare su leve che danno valore e prospettiva ai territori – dice Ferdinando Calaciura dell’agenzia GranVia che opera da vent’anni nel settore –. Il punto di caduta è nei contenuti, a volte banali e ancora poco curati. Bisogna lavorarci, realizzando delle vere e proprie fattorie dove tutte le competenze lavorano per generare testi, video, foto, creatività e una strategia condivisa che aggreghi e non escluda. C’è troppo fai da te che non porta a risultati tangibili».

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