La ragione e il sentimento. Iniziamo dal sentimento. Il maggiore sentimento di una vicenda ad altissimo tasso di emotività e di paura – non dimentichiamo che tutto trae origine dalla salute di chi abita, lavora e muore a Taranto fin dagli anni Sessanta – è il senso di solitudine che l’intera vicenda ex Ilva manifesta. La comunità di Taranto – con il suo senso di condanna e la sua voglia di vivere, con il suo desiderio di lasciare andare le cose e le sue rivolte improvvise – è una comunità profondamente sola. Adesso ci sono tre commissari di nomina governativa che sono tre uomini soli. Il potere e la responsabilità hanno una naturale dimensione di solitudine. Ma Quaranta, Fiori e Tabarelli operano in un contesto che è stato desertificato da dodici anni di errori, sfortune, incidenti, sottomissioni e omissioni. Devono prima di tutto evitare che gli impianti cadano a pezzi. Non hanno soldi. Sono in attesa che il quadro normativo si completi. Le banche osservano il groviglio e aspettano che si dipani. I sindacati gestiscono la pace sociale, avendo come obiettivo strategico la conservazione di tutti i posti di lavoro. Il governo inonda Taranto, Novi Ligure e Cornigliano di soldi pubblici con la cassintegrazione. La solitudine dei tre commissari è direttamente proporzionale alla complessità, quasi assurda, dei problemi che devono affrontare. Per questo il sentimento di questa solitudine ampia e diversificata va affrontato con lo strumento della ragione. Primo punto: le pessime condizioni degli impianti. In questo, diventa essenziale il lavoro dei sindacati. Che conoscono bene i tre siti industriali. E che possono, in questi mesi di traversata del deserto dopo l’uscita di scena di Arcelor Mittal, contribuire – con un comportamento alla tedesca – a riqualificare fabbriche che sono in stato catatonico. Una sorta di co-gestione quotidiana per salvare ogni minimo angolo di impianti che, alla manifattura italiana, servono. Secondo punto: i tre commissari non hanno soldi. In questo, la ragione dell’interesse pubblico suggerirebbe al governo di uscire dalla dimensione dei proclami (la posizione sugli extraprofitti, come nel caso degli istituti di credito, e la querelle pittoresca sul nome delle auto, come nel caso della Alfa Romeo Milano) e di interloquire direttamente, in maniera molti più sistematica, con le grandi banche italiane per organizzare da subito una raccolta di risorse, contemporanea al prestito ponte pubblico. II governo Meloni non può pensare di risolvere ogni cosa soltanto con la cassintegrazione. Serve il pensiero. E, senza il pensiero, nessuna banca farà mai nessuna alleanza con lo Stato. Terzo punto: il futuro perimetro occupazionale. Qui occorre che la ragione sia dispiegata dai sindacati. Ai commissari, che hanno impostato un piano industriale basato sulla modularità della dimensione e sull’utilizzo dei forni elettrici (per definizione assai meno inquinanti), è chiaro che il gigantismo del ciclo integrale da epopea della siderurgia anni Settanta ha elementi antistorici e soprattutto è di difficile riesumazione, quando si ha a che fare con una situazione così follemente grave come questa. Se i sindacati, soltanto, sceglieranno una linea sudamericana e non tedesca puntando sulla conservazione del numero di addetti – costi quel che costi – trasformeranno Acciaieria d’Italia nell’ennesima occasione mancata per l’industria italiana e nell’ennesimo bagno di sangue per i conti pubblici. II sentimento della solitudine – di tre uomini, di una città, di una storia italiana – atterrisce. La ragione e la ragionevolezza ricompongono.
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