Sullo smart working ci sono opinioni diverse, anche tra i top manager. Dette poco ad alta voce, perché basta una frase per scontentare migliaia di persone in una volta e ai lavoratori questa modalità piace: riduce il cosiddetto commuting e il tempo – oltre ai costi – che fa perdere ogni giorno e consente di conciliare meglio vita e lavoro, restituendo ampi spazi privati grazie alla flessibilità. Rispetto alla fase pandemica i numeri si sono ridimensionati, ma oggi, secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, gli smart worker sono pur sempre 3,5 milioni, quasi sette volte in più rispetto al pre Covid. E tra questi ci sono anche i manager, come Gianfranco Chimirri che è chief people officer di Sace, il gruppo assicurativo finanziario controllato dal Mef, guidato dall’ad Alessandra Ricci dove lavorano circa mille knowledge workers. Professionalmente il manager è cresciuto in una grande multinazionale del largo consumo dove c’è un approccio secondo cui «il posto di lavoro non è dove sei, ma quello che fai e il valore che crei. Il concetto di leader ibrido è un tema che deve essere chiaro a tutti nel mondo di oggi in cui la presenza fisica in un luogo non è sempre vitale, grazie anche alle nuove tecnologie. Semmai è vitale capire dove lavorare in funzione dell’attività che bisogna fare», dice Chimirri.
Il modello del manager
Chimirri ha già una lunga carriera alle spalle, a dispetto della sua giovane età, 48 anni. Lo sentiamo al telefono mentre sta rientrando a Roma in treno, con una connessione un po’ precaria che ci costringe a saltellare da una telefonata all’altra. Ci racconta di avere un suo modello. «Cerco di spendere il tempo in ufficio con i colleghi per attività legate a innovazione e creazione di idee, confronti sui progetti, conversazioni di sviluppo con le persone. Ma anche per tutte le iniziative per creare senso di appartenenza a valle e a monte dei meeting. E’ provato che passare il 40% del tempo in ufficio è la misura ideale per tenere in vita il capitale sociale delle organizzazioni». Quando però deve fare quelle che chiama attività di focus e cioè di studio, lettura e scrittura di documenti, allora le fa «dove meglio credo. A casa o in viaggio, dove trovo una dimensione per concentrarmi». Le ore del viaggio in treno di oggi sono state dedicate proprio al focus. Questo modello che ci racconta ha evidentemente una logica che è legata alla società di cui guida le risorse umane e dove è in corso la sperimentazione di un ampio pacchetto di flessibilità che comprende sia lo smart working che la settimana corta. Ma c’è di più.
La nuova leadership e il valore della contaminazione esterna
C’è infatti anche un tema di leadership. «La logica del passo 5 giorni in ufficio è contro uno dei principi della leadership contemporanea: il leader non può stare sempre in ufficio, deve essere connesso col mondo esterno, confrontarsi con i clienti, il mondo accademico, le start up, le nuove tecnologie, viaggiare, conoscere, esporsi alle idee e alle suggestioni che ci sono fuori, per poi contaminare e portare valore aggiunto all’interno dell’organizzazione. Gli estremi non funzionano mai e il modello ibrido va bilanciato. Non è più un valore lavorare 5 giorni in ufficio oggi, allo stesso modo in cui non lo è lavorare sempre, al 100% da casa, anche perché ne risente il benessere delle persone e si genera disingaggio emotivo totale con l’organizzazione, per cui il lavoratore fa quello che fa in maniera asettica. Lo fa per la sua azienda, ma potrebbe farlo allo stesso modo per qualsiasi altra». Le aziende sono anche comunità, nelle quali le persone si identificano per comunanza di valori. La grande difficoltà delle organizzazioni italiane è stata proprio «quella di non aver cresciuto una generazione di leader ibridi, capaci di avere fiducia nelle persone e delegare. Se il leader non è ibrido e passa 5 giorni su 5 in ufficio, non creerà mai una cultura ibrida perché il modello che rappresenta e a cui le persone si ispirano è un altro».
La conciliazione vita lavoro
Il passato è fatto da modelli dove prevaleva l’orario rigido di ingresso e di uscita, la timbratura del cartellino, la presenza in sede. Il presente invece offre molteplici modi di lavorare dove «le persone possono organizzare in autonomia il tempo. Questo è un valore inestimabile», dice Chimirri che è padre di due bambini ed è un ex atleta di triatlon. «Adesso non faccio più competizioni ma continuo ad allenarmi quasi tutti i giorni, al mattino all’alba e riesco a ritagliare lo spazio per la mia famiglia, per accompagnare a scuola i bambini in alcuni giorni, o per mangiare con loro o per essere anche semplicemente presente in casa. I manager lavorano molte ore, ma un modello come il nostro consente loro di evitare le frustrazioni di non poter fare determinate cose importanti per la vita privata. Dipende certamente dalla giornata, ma se me lo consente un pomeriggio posso anche decidere di portare mia figlia in piscina e poi riprendere a lavorare dopo cena. In un modello flessibile questo si può fare, evitando di creare nelle persone la frustrazione di non poter vivere un momento importante».
Il disingaggio emotivo e la via di Sace
«Viviamo un’epoca di forte disingaggio emotivo tra i lavoratori e le aziende con la conseguenza che diventa sempre più difficile trattenere le persone e attrarle. O, peggio ancora, ci si ritrova con persone disingaggiate con forti ripercussioni sulla produttività. E poi non possiamo dimenticarci il peso del fattore demografico che porta ad avere un’offerta sempre più scarsa dal punto di vista quantitativo», dice il manager. «In Sace abbiamo deciso di lavorare innanzitutto sui temi fondamentali – spiega -. Il primo è la ricerca di senso, il purpose perché è necessario che la persona riconosca che il suo contributo è direttamente funzionale alla visione aziendale: questo è sempre più sentito e, soprattutto per le nuove generazioni, non è negoziabile». La costrizione delle organizzazioni in schemi troppo rigidi ha mostrato molti punti deboli, soprattutto nel post pandemia. «Le persone ci chiedono benessere in un framework che dà libertà. I modelli altamente regolamentati e prescrittivi vengono associati alla sfiducia. In altre parole nei modelli tradizionali i manager non si fidano delle persone e quindi dicono quando entrano, quando escono e cosa devono fare. Questo non funziona più. Una volta chiarito il contesto valoriale e strategico dell’azienda alle nostre persone abbiamo chiesto di muoversi liberamente e responsabilmente nel rispetto dei valori, che ovviamente non si possono violare. In un contesto di leadership diffusa. Siamo tutti leader perché tutti abbiamo la capacità di fare accadere le cose: per questo abbiamo decentralizzato il decision making e cambiato il ruolo del senior leader». In che modo? «Il ruolo non è più quello di dire alle persone come fare le cose ma di ispirarle sul purpose, di ingaggiarne non solo la mente ma anche il cuore, di indicare la direzione strategica e poi di essere di supporto come coach. Un modello molto diverso dal controllo e comando», dice il manager.