Si parla di Impero romano, ma mutatis mutandis, e neanche tanto in controluce, appare evidente la parabola dell’Occidente, del nostro Occidente. L’ascesa, la decadenza e la caduta dell’organizzazione di governo e di popolo più imponente della storia dell’umanità assomiglia alla traiettoria di quello che, a volte con malcelato disprezzo, è stato definito l’Impero americano, con il suo bagaglio di conoscenze e valori ma anche di vizi e difetti. Con la differenza che, mentre l’Impero romano è ufficialmente finito nel 476 dopo Cristo, quello americano, seppur ammaccato e in crisi, resiste ai colpi del «pendolo tra Oriente e Occidente», come lo ha definito Fabio Tamburini, direttore del Sole 24 Ore e moderatore del dialogo, al Festival dell’economia di Trento, tra l’ingegnere Francesco Gaetano Caltagirone, presidente del gruppo Caltagirone, e Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della Sera e autore del saggio Quando eravamo i padroni del mondo, dedicato all’Impero Romano.
Caltagirone, che ha dato sfoggio di una conoscenza profonda e brillantemente divulgativa delle dinamiche dell’Impero romano, e Cazzullo, preciso nei suoi riferimenti e generoso di aneddoti e citazioni, concordano su un punto: a causare la decadenza e la rapida caduta (ufficiale) dell’Impero romano, è stato il cristianesimo che in pochi decenni si è portato via i valori fondanti dell’Impero. I cinque mos maiorum, i costumi degli antichi: fiducia (fides), rispetto (pietas), autorità (maiestas), virtù (virtus), serietà (gravitas). Gli architravi laici di Roma spazzati dai vescovi-consiglieri degli imperatori infanti, primo fra tutti Ambrogio, vescovo di Milano e poi santo («per me il male», dice Caltagirone senza troppi giri di parole). Ambrogio convinse il sedicenne imperatore Graziano ad abbattere i templi pagani e a rinunciare alla laicità dell’Impero. «Tra fede e ragione», ha spiegato Caltagirone, «venne scelta la fede. Fu l’inizio di una rapida fine». La fede stava a Milano e la ragione a Roma. O tempora, o mores avrebbe detto Cicerone.
Cazzullo, però, va oltre la caduta storica dell’Impero. «La tesi del libro», dice, «è che l’Impero romano non è mai finito. È passato nei secoli impregnando la cultura di tutti i governi che hanno dominato il mondo. Da Napoleone, imperatore appunto, agli zar e ai kaiser (derivati di Caesar), fino all’Impero americano, pregno ancora di simboli romani: dal Campidoglio al Senato fino ai fasci che ornano la sedia dello speaker».
Roma e Washington palesemente legati, accomunati dalla volontà di essere i primi, di attrarre i migliori, di vincere i nemici per poi fare accordi con loro e farli diventare alleati, concordano ancora Caltagirone e Cazzullo. «Ma se si perde la volontà di essere i migliori», spiega Caltagirone, «qualcuno potrebbe approfittarne per prendere il sopravvento». È la crisi attuale, causata anche da una serie di errori strategici perpetuati negli anni. Il pendolo che oscilla verso Oriente. La decolalizzazione delle produzioni, per esempio. «Alla lunga», spiega Caltagirone, «si finisce per deindustrializzare e perdere potere d’acquisto. Si cede conoscenza e si consente agli altri di recuperare in tre-quattro generazioni un gap millenario. Un modello di globalizzazione basato sul minor prezzo di produzione che rischia di diventare un autogol.Il sistema Italia può salvarsi solo se non compete sul prezzo, ma crea, inventa cose nuove e di qualità, i macchinari, la moda».
La perdita di competitività è dietro l’angolo. Roma non metteva il profitto, ma il governo al primo posto. «La scuola è importantissima», dice Caltagirone «perché può insegnarti a essere rigoroso e disponibile al sacrificio, valori imprescindibili dell’antica Roma. Anche Catilina, il dissoluto, in battaglia dormiva sulla nuda terra e mangiava il rancio dei soldati».