Che cosa è successo all’industria europea dal 2019, quando il Green Deal venne messo al centro della’azione della Commissione guidata da Ursula von der Leyen? Ne hanno discusso al Festival dell’Economia di Trento Antonio D’Amato, presidente di Seda International Packaging Group e di Eppa, e Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo.
Green Deal e perdita di competititività
«Il Green Deal si è dimostrato un “black deal” per il sistema industriale europeo, l’economia, la stabilità sociale ad essa collegata e anche per l’ambiente», è il bilancio di D’Amato: «Moltissime delle azioni di transizione di cinque anni di politica di Frans Timmermans, vate di questo processo, non sono andate nella direzione di tutelare l’ambiente. Il passaggio all’auto elettrica, per esempio, non rappresenta un miglioramento dell’impatto ambientale, perché non è stata fatta un’analisi del ciclo di vita globale, che tenesse conto anche dei costi energetici o di estrazione del litio. Ora che si stanno facendo analisi di questo tipo si vede con chiarezza la scelta scellerata compiuta. E così anche su altri fronti». Secondo il presidente di Seda l’impoverimento del tessuto economico europeo è cominciato prima del Green Deal, ed è stato accelerato negli ultimi anni: «Come industria già avevamo realizzato un’enorme riduzione delle emissioni, ne abbiamo tuttavia accettato un taglio lineare che Paesi come Usa, Giappone Cina non hanno fatto. Così abbiamo determinato un processo di deindustrializzazione, con le imprese della siderurgia, della chimica, del tessile, che hanno delocalizzato vicino ai confini europei, libere poi di esportare facendo un dumping ambientale, fiscale, sociale. Mentre abbiamo perso capacità di innovazione, ricerca e sviuppo. Inquinando solo il 7% del totale globale».
Esportare l’economia circolare europea
Agli oneri asimmetrici imposti dal Green Deal che hanno determinato una perdita di competitività nei confronti di Paesi come Usa e Cina, che hanno anche riceveuto sovvenzioni massicce dai loro governi, si sono sommati negli anni il Covid, la guerra in Ucraina, la crisi energetica, la necessità di rilanciare la difesa europea. Per D’Amato, una nuova politica industriale che miri a creare un’industria del futuro deve partire dalla scienza e dall’innovazione tecnologica: «Hanno permesso il progresso, ma negli ultimi cinque anni abbiamo scelto di privarci di questo vantaggio: il Green Deal, dalle auto all’energia, ha operato in violazione del progresso scientifico misurabile, basandosi su scelte ideologiche che hanno avvantaggiato Paesi come la Cina. L’Europa ha un primato di cultura della sostenilità: deve saperlo imporre e sviluppare nel resto del mondo. Esportando know how e tecnologie nei Paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa, ma anche in quelli già sviluppati. Penso per esempio all’economia circolare, alla raccolta e al riciclo dei materiali che in Italia si fa da 30 anni e che l’ha portata ad essere il Paese più avanzato in Europa. Esportiamo i nostri primati, esportiamo le tecnologie e le buone pratiche».
Mille miliardi per la transizione
Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo, ha ribadito la centralità di scienza e innovazione nei processi di reindustrializzazione: «Vedo investimenti della nostra banca nelle start up, vedo che stanno nascendo idee e realizzazioni impensabili prima. La scienza è il nostro primo strumento per vincere le battaglie che abbiamo di fronte. Nella medicina, nella cura contro il cancro, nelle batterie senza litio, magari realizzate con il sodio, abbondante in natura. Il problema tuttavia va risolto a livello mondiale, perché non possiamo dettare regole pensando che valgano per tutti». Gros-Pietro tocca anche la questione finanziaria: come si sostiene questa reindustrializzazione? «Serviranno fino a 1.000 miliardi all’anno. L’Europa è in grado di produrli, ma bisogna mettersi d’accordo su come si adoperano, nella struttura democratica in cui per fortuna siamo».
Il futuro dei giovani
Il presidente di Intesa Sanpaolo sottolinea anche il ruolo delle banche in questa transizione: «Possiamo fare tanto, a partire dal coinvolgimento dei governi e di organismi come quelli dell’Unione Europea nella direzione giusta per la soluzione ai problemi, visto che non è nelle mani di un unico decisore. E poi possiamo fornire dati a chi è in grado di decidere. Il 25 giugno abbiamo un incontro con Christine Lagarde alla Banca Centrale Europea: ci dirà che si aspetta che noi facciamo una fotografia dettagliata, e profonda nel tempo, di quelle che saranno emissioni dei nostri clienti. Di tutta la filiera. Noi abbiamo già cominciato a farlo e abbiamo i dati di 220mila imprese. Poche rispetto ai milioni di clienti. E i dati dovranno essere aggiornati idealmente ogni trimestre. Una cosa difficile». Gros-Pietro rimane tuttavia ottimista sul futuro: «Sono convinto che noi abbiamo possibilità di superare gli ostacoli. Stiamo facendo funzionare l’unione bancaria. A Intesa Sanpaolo stiamo assumendo migliaria di giovani laureati. Loro costruiranno il futuro. Noi dobbiamo fornire l’organizzazione adatta alla vita che vorranno condurre, con tempi flessibili di lavoro in cui la famiglia coesisterà con la vita professionale. E ce la faremo».